L’altra
sera ho visto “1984″ di George Orwell in un teatro di Londra. Sebbene
venisse sbandierata l’interpretazione contemporanea, il monito di
Orwell riguardo al futuro veniva presentato come un pezzo storico:
remoto, innoquo, quasi rassicurante. Era come se Snowden non avesse
rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale,
se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal
totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario.”
Né lei né la sua intervistatrice hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere. In “Les damnés de la terre” (I dannati della terra) Frantz Fanon scrisse che la “missione storica” dei colonizzati era di fungere da “cinghia di trasmissione” per coloro che governavano e opprimevano. Ai nostri giorni, l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush -la sua banda di guerrafondai- fosse il più multirazziale nella storia presidenziale.
In modo orwelliano, in occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”. Hillary Clinton ha paragonato Putin a Hitler. Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto. Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”. Quello che temono è che Putin stia abilmente cercando una soluzione diplomatica, e potrebbe avere successo. Il 27 di giugno, per reagire all’ultimo atto accomodante di Putin – la sua richiesta al parlamento russo di abrogare la legislazione che gli dava il potere di intervenire a nome dei russi residenti in Ucraina – il Segretario di Stato John Kerry ha mandato un altro dei suoi ultimatum. La Russia doveva “agire entro le prossime ore, letteralmente” per far terminare la rivolta nell’est dell’Ucraina. Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un pagliaccio,, il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo.
Il 28 giugno, il Guardian dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Porošenko. Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana. Non c’era alcun colpo di stato; nessuna guerra contro la minoranza ucraina; la colpa di tutto era dei russi. “Vogliamo modernizzare il mio paese”, disse Poroshenko. “Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo.”
Acclamata dai critici, l’abile regia rispecchiava la cultura e la
politica del nostro tempo. Quando si accesero le luci, il pubblico stava
già uscendo. Sembravano indifferenti, o forse attratti da altre
distrazioni. “Che pippa mentale”, ha commentato una ragazza accendendo
il suo cellulare.
Mentre le società avanzate vengono depoliticizzate, i cambiamenti
sono sia sottili che spettacolari. Nei discorsi di tutti i giorni il
linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in 1984.
“Democrazia” è ora una figura retorica. La pace è “guerra perpetua”.
“Globale” è imperiale. Il concetto di “riforma”, un tempo foriero di
speranze, ora significa aggressione, perfino distruzione. “Austerità” è
l’imposizione del capitalismo estremo ai poveri e il dono del
socialismo ai ricchi: un sistema ingegnoso in cui la maggioranza paga
il debito dei pochi.
Nelle arti, l’ostilità verso la verità politica è un articolo di
fede borghese. “Il periodo rosso di Picasso”, recita un titolo
dell’Observer, “e perché la politica non fa buona arte”. Questo in un
giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq presentandolo come
una crociata liberale. L’opposizione di Picasso al fascismo durante
tutta la sua vita è una nota a margine, così come il radicalismo di
Orwell è sfumato nel premio che si è appropriato del suo nome.
Alcuni anni fa Terry Eagleton, allora professore di letteratura
inglese all’università di Manchester, considerava che “per la prima
volta negli ultimi 200 anni non c’è un eminente poeta, drammaturgo o
novellista britannico pronto a mettere in questione le fondamenta del
modo di vita occidentale”. Nessuna Shelley parla dei poveri, nessun
Blake di sogni utopici, nessun Byron condanna la corruzione della classe
dominante, né Thomas Carlyle o John Ruskin rivelano il disastro morale
del capitalismo. William Morris, Oscar Wilde, H.G. Wells, George
Bernard Shaw non hanno equivalenti al giorno d’oggi. Harold Pinter fu
l’ultimo a far sentire la sua voce. Tra le voci insistenti del
femminismo da consumo, nessuna fa eco a Virginia Woolf, che descrisse
“l’arte di dominare altre persone… di governare, uccidere, acquisire
terre e capitali”.
Al National Theatre, un nuovo spettacolo, “Gran Bretagna”, fa
satira sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto
alcuni giornalisti processati e condannati, compreso un ex redattore di
News of the World di Rupert Murdoch. Descritto come “una
farsa mordente che inchioda l’intera cultura dei media incestuosi e la
ridicolizza senza pietà”, ha come bersagli i “beatamente divertenti”
personaggi della stampa scandalistica britannica. Va benissimo. E che
ne diciamo dei media non scandalistici, che si considerano rispettabili
e credibili e invece svolgono il ruolo parallelo di braccio dello
stato e del potere aziendale, come nella promozione di guerre illegali?
L’inchiesta Leveson sulle intercettazioni telefoniche ha fornito
uno scorcio su questo argomento tabù. Tony Blair stava fornendo prove,
lamentando a Sua Signoria le molestie dei tabloid su sua moglie, quando
venne interrotto da una voce proveniente dalla galleria pubblica.
David Lawley-Wakelin, un regista, chiedeva che Blair fosse arrestato e
perseguito per crimini di guerra. Ci fu una lunga pausa: lo shock della
verità. Lord Leveson balzò in piedi, ordinò che colui che diceva la
verità fosse cacciato fuori e si scusò con il criminale di guerra.
Lawley-Wakelin fu perseguito; Blair rimase libero.
I complici di lunga data di Blair sono più rispettabili di chi
intercetta le telefonate. Quando la presentatrice artistica della BBC,
Kirsty Wark, lo intervistò riguardo al decennale della sua invasione
dell’Iraq, gli regalò un momento che poteva solo sognare: gli permise di
angosciarsi della sua “difficile” decisione presa sull’Iraq, anziché
chiamarlo a rispondere del suo crimine epico. Ciò ispirò la processione
di giornalisti della BBC, che nel 2003 dichiarò che Blair poteva
sentirsi “discolpato”, e la successiva “influente” serie della BBC, “Gli
anni di Blair”, per la quale David Aaronovitch fu scelto come
scrittore, presentatore e intervistatore. Quale valletto di Murdoch che
aveva promosso gli attacchi militari in Iraq, Libia e Siria,
Aaronovitch adulò da esperto.
Dall’invasione dell’Iraq -un esempio di atto di aggressione non
provocato, che l’accusatore di Norimberga Robert Jackson definì “il
crimine internazionale supremo, diverso da altri crimini di guerra solo
perché contiene in se stesso l’intero male dell’insieme”- a Blair e al
suo portavoce e complice principale, Alastair Campbell, è stato
concesso ampio spazio nel Guardian per riabilitare la loro
reputazione. Descritto come una “stella” del partito laburista,
Campbell ha cercato la comprensione dei lettori per la sua depressione e
mostrato i suoi interessi, ma non il suo attuale incarico di
consigliere, sotto Blair, della tirannia militare egiziana.
Mentre l’Iraq viene smembrato in conseguenza dell’invasione Blair/Bush, il Guardian titola:
“Rovesciare Saddam era giusto, ma ce ne siamo andati troppo presto”.
Questo era un articolo del 13 giugno scritto da un ex funzionario di
Blair, John McTernan, che aveva lavorato anche per il dittatore Iyad
Allawi, installato dalla CIA. Invocando una seconda invasione del paese
che il suo ex padrone aveva contribuito a distruggere, non menzionava
la morte di almeno 700.000 persone, la fuga di 4 milioni di rifugiati e
i conflitti settari in una nazione un tempo fiera della sua tolleranza
comunitaria.
“Blair rappresenta la corruzione e la guerra”, ha scritto l’articolista radicale del Guardian,
Seumas Milne, in un vivace pezzo del 3 luglio. Questo viene chiamato
dagli specialisti “bilanciamento”. Il giorno successivo, il giornale ha
pubblicato un annuncio pubblicitario a tutta pagina per un bombardiere
stealth americano. Su di un immagine minacciosa del
bombardiere c’erano le parole: “L’F-35. GRANDE per la Bretagna”.
Quest’altra rappresentazione di “corruzione e guerra” costerà ai
contribuenti britannici 1,3 miliardi di sterline, mentre i suoi
predecessori dello stesso modello hanno assassinato la gente nei paesi
in via di sviluppo.
In un villaggio dell’Afghanistan, abitato dai più poveri dei
poveri, filmai Orifa, inginocchiata sulla tomba di suo marito, Gul
Ahmed, tessitore di tappeti, altri 7 membri della sua famiglia,
compresi 6 bambini, e due bambini che erano stati uccisi nella casa
adiacente. Una bomba “di precisione” da 250kg era caduta direttamente
sulla loro piccola casa di fango, pietra e paglia, lasciando un cratere
largo 15 metri. Lockheed Martin, ditta costruttrice dell’aereo, ha
avuto l’onore di figurare nell’annuncio del Guardian.
L’ex segretaria di stato e aspirante presidente degli Stati Uniti,
Hillary Clinton, è comparsa di recente su “Women’s Hour” della BBC, la
quintessenza della rispettabilità dei media. La conduttrice, Jenni
Murray, ha presentato la Clinton come un’icona di successo femminile.
Non ha ricordato agli ascoltatori la bestemmia della Clinton secondo cui
l’Afghanistan era stato invaso per “liberare” le donne come Orifa. Non
ha chiesto nulla alla Clinton riguardo alla campagna di terrore della
sua amministrazione che usava droni per uccidere donne, uomini e
bambini. Nessuna menzione della minaccia della Clinton, mentre si
proponeva come prima presidentessa donna, di “eliminare” l’Iran, e
niente riguardo al suo supporto per la sorveglianza di massa illegale e
la caccia agli informatori.
La Murray in effetti ha posto una domanda scottante: la Clinton
aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo
marito? “Il perdono è una scelta”, ha risposto la Clinton, “per me era
assolutamente la scelta giusta.” Ciò richiamava alla mente gli anni
’90, quelli dello “scandalo” Lewinsky. Il presidente Bill Clinton
allora stava invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e
l’Iraq. Stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni: l’Unicef
riportò la morte di mezzo milione di bimbi iracheni al di sotto dei 5
anni, in conseguenza di un embargo guidato da USA e Gran Bretagna.
I bambini per i media non erano persone, così come le vittime di
Hillary Clinton nelle invasioni che ha supportato e promosso:
Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia, per i media non sono persone. La
Murray non ha fatto nessuna menzione di loro. Sul sito della BBC compare
una foto sua e della sua distinta ospite, raggiante.
In politica così come nel giornalismo e nelle arti, sembra che il
dissenso un tempo tollerato nei media “mainstream” sia regredito a
dissidenza: un metaforico sottoterra. Quando cominciai la mia carriera a
Fleet Street, negli anni ’60, era accettabile criticare il potere
occidentale come forza rapace.
Leggete i celebri resoconti di James
Cameron sull’esplosione della bomba H nell’atollo di Bikini, la guerra
barbarica in Corea e il bombardamento americano del Vietnam del Nord. La
grandiosa illusione di oggi è di essere in un’era dell’informazione
mentre, in verità, viviamo in un’era dei media in cui l’incessante
propaganda aziendale è insidiosa, contagiosa, efficace e liberale.
Nel suo saggio del 1859, “Sulla libertà”, a cui i moderni liberali
porgono omaggio, John Stuart Mill scrisse: “Il dispotismo è una forma
di governo legittima nel trattare con i barbari, purché il fine sia il
loro miglioramento e i mezzi siano giustificati dall’effettivo ottenere
quel fine.” I “barbari” erano vaste porzioni di umanità da cui era
richiesta “obbedienza implicita”. “E’ un mito simpatico e conveniente
che i liberali siano pacifisti e i conservatori guerrafondai”, scrisse
lo storico Hywel Williams nel 2001, “ma l’imperialismo del modo di vita
liberale potrebbe essere più pericoloso per via della sua natura
aperta: la sua convinzione di rappresentare una forma di vita
superiore.” Aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo
ministro prometteva di “riordinare il mondo intorno a noi” secondo i
suoi “valori morali”.
Richard Falk, rispettata autorità in campo di diritto
internazionale e inviato speciale ONU in Palestina, una volta ha
parlato di “uno scudo legale/morale autoreferenziale e unilaterale, con
immagini positive di valori occidentali e di innocenza presentata in
pericolo, che giustifica una campagna di sfrenata violenza politica.”
E’ “così largamente accettata da essere praticamente incontrastabile”.
Il mandato e l’appoggio gratificano i guardiani. Su BBC Radio 4,
Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la premio Nobel
afro-americana. La Morrison si chiedeva come mai la gente fosse “così
arrabbiata” con Barack Obama, che era “figo” e desiderava costruire “una
forte economia e sanità”. La Morrison era fiera di aver parlato al
telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva
invitata alla sua inaugurazione.
Né lei né la sua intervistatrice hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere. In “Les damnés de la terre” (I dannati della terra) Frantz Fanon scrisse che la “missione storica” dei colonizzati era di fungere da “cinghia di trasmissione” per coloro che governavano e opprimevano. Ai nostri giorni, l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush -la sua banda di guerrafondai- fosse il più multirazziale nella storia presidenziale.
Mentre la città irachena di Mosul veniva presa dai jihadisti
dell’ISIS, Obama ha affermato: “Il popolo americano ha fatto
investimenti e sacrifici enormi per dare agli iracheni l’opportunità di
forgiare un destino migliore.” Quanto è “figa” questa bugia? Com’era
“raffinato” il discorso di Obama all’accademia militare di West Point
il 28 maggio. Indirizzando il suo discorso sullo “stato del mondo” a
quanti “assumeranno la leadership americana” in tutto il mondo, Obama
ha detto: “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente
se necessario, quando lo richiedono i nostri interessi cruciali.
L’opinione internazionale ha importanza, ma l’America non chiederà mai
il permesso…”
Ripudiando il diritto internazionale e i diritti delle nazioni
indipendenti, il presidente americano si arroga una divinità basata
sulla potenza della sua “nazione indispensabile”. E’ un messaggio
famigliare di impunità imperiale, sebbene sempre corroborante da
sentire. Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ’30, Obama ha
affermato: “Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio
essere”. Lo storico Norman Pollack scrisse: “A chi faceva il passo
dell’oca sostituiamo l’apparentemente più innoqua militarizzazione della
cultura totale. E al posto del leader magniloquente abbiamo il
riformatore mancato, allegramente al lavoro, che pianifica ed esegue
assassinii mentre sorride tutto il tempo.”
A febbraio gli USA hanno montato uno dei loro colpi di stato
“colorati” contro il governo eletto dell’Ucraina, sfruttando le genuine
proteste contro la corruzione a Kiev. La consigliera alla sicurezza
nazionale di Obama, Victoria Nuland, ha selezionato personalmente il
leader del “governo provvisorio”. Lo ha soprannominato “Yats”. Il vice
presidente Joe Biden è arrivato a Kiev, così come il direttore della CIA
John Brennan. Le truppe d’assalto per il loro putsch erano fascisti
ucraini.
Per la prima volta dal 1945, un partito neonazista apertamente
antisemita controlla aree chiave del potere statale in una capitale
europea. Nessun leader occidentale ha condannato questo revival del
fascismo. [...] Dal collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti
hanno circondato la Russia con basi militari, bombardieri nucleari e
missili come parte del loro progetto di allargamento della NATO.
Rinnegando una promessa fatta dal presidente sovietico Mikhail Gorbachev
nel 1990, secondo cui la NATO non si sarebbe espansa “un centimetro ad
est”, la NATO di fatto ha occupato militarmente l’Europa orientale.
Nell’ex Caucaso sovietico, l’espansione della NATO è il più grande
accumulo militare dalla seconda guerra mondiale.
Un piano di azione per l’adesione alla NATO è il dono di Washington
al regime di Kiev. Ad agosto l’operazione “Tridente rapido” metterà
truppe americane e britanniche sul confine russo dell’Ucraina, e “Brezza
di mare” invierà navi da guerra statunitensi a distanza di
avvistamento dai porti russi. Immaginate la reazione se questi atti di
provocazione, o intimidazione, venissero compiuti ai confini americani.
Nel reclamare la Crimea -che Nikita Krusciov staccò illegalmente
dalla Russia nel 1954- i russi si sono difesi come hanno fatto per
quasi un secolo. Più del 90% della popolazione di Crimea ha votato per
restituire il territorio alla Russia. La Crimea è sede della flotta del
Mar Nero, e la sua perdita sarebbe una questione di vita o di morte
per la marina russa, e un bottino per la NATO. Confondendo i partiti
guerrafondai a Washington e Kiev, Vladimir Putin ha ritirato le truppe
dal confine ucraino ed esortato i russi etnici in Ucraina orientale ad
abbandonare il separatismo.
In modo orwelliano, in occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”. Hillary Clinton ha paragonato Putin a Hitler. Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto. Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”. Quello che temono è che Putin stia abilmente cercando una soluzione diplomatica, e potrebbe avere successo. Il 27 di giugno, per reagire all’ultimo atto accomodante di Putin – la sua richiesta al parlamento russo di abrogare la legislazione che gli dava il potere di intervenire a nome dei russi residenti in Ucraina – il Segretario di Stato John Kerry ha mandato un altro dei suoi ultimatum. La Russia doveva “agire entro le prossime ore, letteralmente” per far terminare la rivolta nell’est dell’Ucraina. Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un pagliaccio,, il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo.
Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofona e bilingue. Da
tempo desiderano una federazione democratica che rifletta la diversità
etnica ucraina e sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte
non è né “separatista” né “ribelle”, ma composta da cittadini che
vogliono vivere in sicurezza nella loro patria. Il separatismo è una
reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che hanno
causato la fuga di 110.000 (stima ONU) rifugiati verso la Russia.
Generalmente, donne e bambini traumatizzati.
Come i bambini iracheni vittime dell’embargo, e le donne e ragazze
“liberate” dell’Afghanistan, terrorizzate dai signori della guerra
della CIA, queste popolazioni dell’Ucraina per i media occidentali non
sono persone; la loro sofferenza e le atrocità commesse contro di loro
vengono minimizzate o taciute. I media mainstream occidentali non fanno
percepire la dimensione dell’assalto del regime. Ciò non è senza
precedenti. Leggendo di nuovo il capolavoro di Phillip Knightley, “La
prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e
creatore di miti”, ho rinnovato la mia ammirazione per Morgan Philips
Price del Manchester Guardian, l’unico reporter occidentale a
restare in Russia durante la rivoluzione del 1917 e a riportare la
verità di una disastrosa invasione degli alleati occidentali.
Imparziale e coraggioso, Philips Price da solo disturbò quello che
Knightley chiama un “oscuro silenzio” anti-russo in occidente.
Il 2 maggio, a Odessa, 41 russi etnici furono bruciati vivi nella
sede dei sindacati, mentre la polizia stava a guardare. Ci sono prove
video orripilanti. Il leader di Settore Destro Dmytro Yarosh salutò il
massacro come “un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale”.
Nei media americani e britannici, ciò venne riportato come una
“tragedia opaca”, conseguenza di “scontri” tra “nazionalisti”
(neonazisti) e “separatisti” (le persone che raccoglievano le firme per
il referendum sull’Ucraina federale). Il New York Times lo
seppellì, avendo liquidato come propaganda russa gli avvertimenti sulle
politiche fasciste e antisemite dei nuovi agenti di Washington. Il Wall Street Journal
condannò le vittime -”Mortale incendio ucraino probabilmente innescato
dai ribelli, dice il governo”. Obama si congratulò con la giunta per
la sua “moderazione”.
Il 28 giugno, il Guardian dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Porošenko. Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana. Non c’era alcun colpo di stato; nessuna guerra contro la minoranza ucraina; la colpa di tutto era dei russi. “Vogliamo modernizzare il mio paese”, disse Poroshenko. “Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo.”
Secondo questo resoconto, il reporter del Guardian, Luke
Harding, non mise in questione tali affermazioni né menzionò l’atrocità
di Odessa, gli attacchi aerei e di artiglieria del regime sulle aree
residenziali, l’uccisione e il rapimento di giornalisti, l’incendio di
un giornale di opposizione e la sua minaccia di “liberare l’Ucraina
dalla feccia e dai parassiti”. Il nemico sono i “ribelli”, i
“militanti”, gli “insorti”, i “terroristi” e gli agenti del Cremlino.
Ripensate ai fantasmi del Vietnam, del Cile, di Timor Est, dell’Africa
australe, dell’Iraq; notate le stesse etichette. La Palestina è la
calamita di questo immutevole inganno. L’11 luglio, in seguito
all’ultimo massacro israeliano a Gaza -80 persone, compresi 6 bambini
in una famiglia-, equipaggiato dagli americani, un generale israeliano
scrive sul Guardian, titolando: “Una necessaria dimostrazione di
forza”.
Negli anni ’70 incontrai Leni Riefenstahl, e la interrogai sui suoi film che glorificavano il nazismo.
Usando in modo rivoluzionario la telecamera e le tecniche di
illuminazione, Leni aveva prodotto una forma di documentario che aveva
ipnotizzato i tedeschi. È stato il suo “Trionfo della Volontà” che ha
presumibilmente dato il lancio al maleficio di Hitler. Le ho domandato
della propaganda nelle società che si ritengono superiori. Lei replicò
che i “messaggi” nei suoi film non dipendevano da “ordini dall’alto”, ma
dal “vuoto sottomesso” della popolazione tedesca. “Ciò includeva anche
la borghesia liberale ed istruita?” le chiesi. “Chiunque,” rispose,
“e, naturalmente, anche gli intellettuali.”
=> TLAXCALA
Visto e tratto da: vocidallastrada.blogspot.it
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