di Alain de Benoist – 13/06/2011 * Fonte: Arianna Editrice
Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più piuttosto che un po’ di meno. «Il denaro non fa la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio popolare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per ‘natura” guadagnare sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vivere e guadagnare tanto quanto gli è necessario per farlo». In seguito, numerose inchieste hanno dimostrato una relativa dissociazione tra la crescita del livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: superata una certa soglia, avere di più non rende più felici.
Nel 1974, i lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di soddisfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei paesi sviluppati. (Questo «paradosso di Easterlin» è stato confermato ancora di recente). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la crescita materiale, come il Pil, di valutare il benessere reale — soprattutto sul piano collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che permetta di associare le preferenze indiyiduali alle preferenze sociali.
E allettante vedere nel denaro soltanto uno strumento di potenza. Purtroppo, il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà a lungo ancora un sogno. Una volta, si diventava ricchi perché si era potenti; oggi, si è potenti perché si è ricchi. L’accumulazione di denaro è presto divenuta non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infinita del denaro. Il potere di accumulare il denaro dà evidentemente un potere discrezionale a coloro che lo possiedono.
La speculazione monetaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo. Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. Infatti, è soltanto nello scambio che gli oggetti acquistano una dimensione di economicità. Ed è ugualmente nello scambio che il valore economico si trova dotato di una completa oggettività, poiché i beni scambiati sfuggono allora alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la relazione che esiste tra soggettività differenti. In quanto equivalente generale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i beni a un denominatore comune, essa rende nel contempo gli scambi omogenei, come constatava già Aristotele: «Tutte le cose che sono scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, un intermediario. Perché misura tutte le cose».
Creando una prospettiva a partire dalla quale le cose più diverse possono essere valutate per il tramite di un numero, la moneta le rende in qualche modo uguali: riporta tutte le qualità che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalenza astratta a tutte le merci.
È l’equivalente generale che riconduce tutte le qualità a una valutazione quantitativa, poiché il valore commerciale è capace esclusivamente di operare una differenziazione quantitativa.
Ma, nel contempo, lo scambio rende uguale anche la personalità degli scambisti. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lungo andare, l’interscambiabilità degli uomini che sono il luogo di questi desideri. «Il regno del denaro», ha osservato Jean-Joseph Goux, «è il regno della misura unica a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane possono essere valutate [...] Appare qui chiaramente una certa configurazione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con una certa monovalenza teologica».
Monoteismo del mercato. «Il denaro», scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci».
Il denaro è, dunque, molto più del denaro — e l’errore più grande sarebbe credere che sia «neutro». Come la scienza, la tecnica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Ventitre secoli fa, Aristotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». Insaziabile, questa è la parola: non ce n’è mai abbastanza — e dato che non ce n’è mai abbastanza, non ce ne può, evidentemente, essere troppo. Il desiderio di denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto perché si nutre di se stesso. Ogni quantità, qualunque essa sia, può infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio si confonde sempre con il più. Non si ha mai abbastanza di ciò di cui si può avere sempre di più. Proprio per questo, le antiche religioni europee hanno continuamente messo in guardia contro la passione del denaro di per se stesso: mito di Gullveig, mito di Mida, mito dell’Anello di Policrate — e il «declino degli dèi» (ragnarokr) è esso stesso la conseguenza di una bramosia (I’«oro del Reno»).
«Corriamo il rischio», ha scritto alcuni anni fa Michel Winock, «di vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati proprio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo. La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istituzionale, col pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si esprimono sul registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia, non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attraverso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.
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