Scritto da Gianluca Freda |
Mercoledì 09 Marzo 2011 23:01 |
Negli anni della nostra infanzia felice era bello rintontirci coi fumetti di Topolino. Ci perdevamo giocosi nel turbine di avventure della meditabonda pantegana disneyana. Viaggiavamo con la fantasia in una dimensione rarefatta in cui la complessità delle relazioni umane e delle categorie morali era stata riscritta e ridotta ai suoi connotati elementari. Camminavamo leggeri per le strade di Topolinia, colorata città popolata da pantegane, mucche, cavalli, cani e bestie plurime dotate di parola, raziocinio e sentimenti umani, dalla quale gli uomini erano stati cancellati. Si intuivano, a monte della narrazione fanciullesca, i segni di una mostruosa operazione di pulizia etnica antiumana che il commissario Basettoni aveva ricevuto l’ordine di passare sotto silenzio. Ma non c’importava. Le pantegane di Topolinia erano così ridenti, spensierate, variopinte. Così diverse da noi, ma animate da principi etici robusti e riconoscibili, dall’antica e vivida dicotomia bene-male dei crociati, che non esitavamo a riconoscere come nostra. La loro superiorità morale, culturale e perfino tecnologica appariva lampante. Spennacchiotto e il dottor Enigm si beffavano con risate tenorili dell’arretratezza neanderthaliana delle nostre industrie petrolchimiche, siderurgiche e metallurgiche. Questi ratti festanti erano l’homo superior. Ci saremmo offerti con gioia ai loro rastrellamenti, saremmo discesi con letizia nelle loro allegre fosse comuni, avremmo salutato con riconoscenza i loro bombardamenti umanitari, straripanti di BOOM! e BANG!, sui nostri quartieri. In buona parte lo abbiamo fatto davvero. I bambini della scuola di Gorla a Milano, la mattina del 20 ottobre 1944, esplosero dalla felicità quando Topolino e Pippo arrivarono dal cielo a fare giustizia di loro. Erano i loro liberatori. Prima di essere ridotti in frattaglie, avrebbero voluto chiacchierare un po’ con i propri beniamini, domandargli della loro città piena di colori, invitarli a fare colazione con latte e biscotti nel tinello della loro casetta a ringhiera. Se ci pensate bene, invitare una pantegana nera alta circa un metro a bere il latte del mattino con voi non è esattamente un’idea felice. E’ una cosa schifosa e perversa. Chi riuscirebbe a ingurgitare anche un solo boccone avendo di fronte un gigantesco ratto di fogna in calzoncini vermigli che disquisisce di frivolezze con una vocetta stridula? Eppure immenso è il potere della riconversione mediatica dell’immaginario. Prima che arrivassero le pantegane topoliniensi, i bambini italiani sognavano di essere poliziotti (Dick Fulmine), eroi della guerra civile spagnola (Romano il Legionario), avventurieri dello spazio (Saturno contro la Terra), “indiani bianchi” del West (il “Kit Carson” di Rino Albertarelli). Ci vollero anni di propaganda pervasiva per condurli a desiderare di essere pantegane. Anche in questo è possibile notare la superiorità psico-propagandistica dei servizi d’intelligence di Topolinia. Essi prendono tutto ciò che è rivoltante, antiumano, sgradevole, degradante, insopportabile e lo rendono fragrante e desiderabile come una torta di mele di Clarabella. Le pantegane invaderanno il vostro tinello, occuperanno la vostra casa, berranno nella vostra ciotola e voi non soltanto non telefonerete inorriditi al servizio di disinfestazione, ma le accoglierete con un sorriso, come si fa con gli ospiti di riguardo. L’invasione di questi putridi roditori pone, tra le altre cose, alcuni gravi problemi di carattere sanitario. Essi sono portatori di malattie gravi, tra cui la leptospirosi, la salmonella, la toxocariasi e la democrazia. Quest’ultima patologia, nello specifico, presenta un carattere epidemico particolarmente virulento. Le ultime manifestazioni epidemiche di democrazia, in Iraq e in Afghanistan, hanno già provocato milioni di vittime. Ma anche in questo caso, gli apparati di propaganda topoliniensi si sono fatti in quattro per presentare l’affezione di questo morbo devastante come una condizione fisica privilegiata e altamente desiderabile. Essenzialmente, la patologia democratica attacca la gerarchia del merito e delle funzioni istituzionali all’interno di una nazione. Essa pone perentoriamente sullo stesso piano intellettuale, con apposita assemblea costituente, i meritevoli e i cialtroni, i saggi e gli scimuniti, gli eruditi e le comari. In democrazia, un imbecille non dice imbecillità, ma esprime legittime, sebbene non sempre autorevoli, opinioni, e per tutelare il suo diritto a blaterare a caso su questioni importanti, ogni buon cittadino democratico deve dirsi disposto a offrire voltairianamente la vita. Nella sua forma terminale, la democrazia consente l’accesso alle alte cariche dello Stato e agli incarichi pubblici di rilievo ai soli incapaci e analfabeti conclamati, considerandoli categoria protetta anziché manodopera mineraria o (nel caso di babbei di sesso femminile) utili strumenti di espansione demografica. Ciò distrugge alla radice la solidità economica, politica e militare del paese, ne mina la governabilità, lo disintegra in miriadi di correnti politiche arroccate nell’attuazione di finalità demenziali, consentendo alle pantegane di prenderne il controllo. E’ per questo che le pantegane in calzoncini rossi decantano incessantemente le virtù della democrazia, esattamente come le brigate dei lanzichenecchi consideravano la peste di cui erano portatori un valore aggiunto e una manifestazione incontrovertibile della predilezione divina. In questa prava esaltazione ed unzione del morbo orrendo, esse trovano facile terreno di coltura nella massa ampiamente maggioritaria dei minus habentes, la quale, immemore della propria salute, inneggia apostolicamente alle virtù egualitarie della pestilenza, fino a morirne anch’essa in atroce supplizio, con le carni annerite dalle pustole livide della vanvera inconcludente. Tra le operazioni psicologiche d’abbellimento della prosaica realtà attuate dall’intelligence di Topolinia, spicca la divinizzazione della categoria dei “diritti umani”. Nessuno ha ancora ben compreso che razza di roba siano questi feticci, ma si sa che Eta Beta, di tanto in tanto, ne tira un paio fuori dall’inesauribile taschino per lanciarli a Flip o per soffiarcisi il naso. Essi attengono alla sfera della filosofia politica, cioè dell’astrazione e della fantasticheria farfallesca, che è l’habitat naturale delle nostre ridenti pantegane a fumetti. Diritto alla libertà individuale, diritto alla vita, diritto all'autodeterminazione, diritto a un giusto processo, diritto ad un'esistenza dignitosa... concetti sopraffini, di cui il Prof. Pico de’Paperis disquisisce spesso nei suoi dotti interventi, ricevendo il consenso unanime e l’apprezzamento incondizionato dell’intera cittadinanza. Vi sono però alcune regole che occorre rispettare scrupolosamente se non si vuole che le pantegane s’incazzino sul serio. La prima è quella di non pretendere mai diritti di cui gli umani possano fruire in concreto, come ad esempio il diritto ad un’abitazione gratuita, il diritto ad un lavoro e ad un salario decoroso, il diritto ad intervenire direttamente nelle scelte del governo, il diritto ad un’assistenza sanitaria gratuita e di buon livello, il diritto a non essere intercettati e spiati dalle autorità, il diritto a non veder tassati i propri redditi oltre il limite di sopravvivenza, il diritto a non vedersi sottrarre risorse essenziali come l’acqua e il cibo dagli intrallazzi delle multinazionali, ecc. Tutto ciò che è concreto ed umano fa imbestialire i simpatici ratti con gli scarponi gialli. Non si rovina un sogno disneyano con rivendicazioni di squallida materialità. Tanto più che i diritti astratti sono stati ideati appunto con lo scopo di sostituire le rivendicazioni di diritti materiali con un loro simulacro virtuale. I roditori a fumetti odiano che la realtà interferisca con la vita quotidiana dei membri delle loro colonie. La realtà è un luogo molto pericoloso per una pantegana disegnata. La seconda regola da rispettare è quella di non chiedere mai alle pantegane di attenersi, esse per prime, ai dettami delle proprie astrazioni filosofiche. I “diritti umani” sono una creazione delle autorità topoliniensi, sono loro a detenerne il copyright, soltanto loro sono legittimate ad utilizzarli come unità di misura della moralità altrui. Guai ad applicarli contro i loro stessi ideatori. Si tratterebbe di una violazione di copyright, che le leggi di Topolinia puniscono con estrema severità. Si astengano dunque le popolazioni dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Vietnam, della Corea, nonché i pochi sopravvissuti alla strage di Waco del 1993 (le squadre speciali di Basettoni fecero all’epoca 76 morti ammazzati, tra cui 21 bambini e 2 donne incinte) dal rinfacciare ai ratti festanti la loro incoerenza. Le popolazioni umane non ricevono tutela dalla legislazione di Topolinia, a meno che non accettino di farsi ridurre a pupazzetti disegnati, a parlare coi baloon e a farsi pubblicare su albetti di 32 pagine a 4 colori. Alcune popolazioni hanno comunque intrapreso questo difficile percorso di legalizzazione: i divertenti eroi della “rivoluzione in Libia”, ad esempio, compariranno presto in una nuova serie a cartoni animati e saranno coprotagonisti del nuovo lungometraggio animato di Winnie the Pooh. L’orda dei topi ghignanti riveste di fattezze vezzose le proprie ruvide pellicce nerastre, squittisce con voce di bambino mentre si appresta a dilaniare gli spettatori estasiati. Le pestilenze che porta con sé sono ricercate, contese, ogni singolo virus s’infiocchetta di nastri sgargianti e si tinge di arcobaleno mentre invade mortalmente il corpo ospite. Ho sentito con le mie orecchie, alla TV, un “guerrigliero” libico simil-talebano, con lunga e crespa barbaccia nera, dichiarare ad un giornalista: “Tutto ciò che vogliamo è poter vivere anche noi come gli occidentali”. E’ il sogno disneyano che unifica l’umanità intera in un ricettacolo virale cosmico, il desiderio di tornare bambini che accoglie con tripudio ogni orrore tinto d’innocenza. Anche in Libia gli uomini di buona volontà non desiderano altro che ricevere nel proprio tinello i topi giocosi, parlare con loro dell’infanzia perduta, dividere con loro latte e biscotti mentre tra le imposte splendono i raggi di un’alba serena. I topi, di certo, non si fanno pregare. |
giovedì 10 marzo 2011
UOMINI E TOPI
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