fonte: peacereporter.net
I Cruise lanciati sulla Libia contengono uranio impoverito, le cui conseguenze, nel peggiore dei casi, potrebbero essere stimabili nell’ordine di seimila morti. A lanciare l’allarme è il professor Massimo Zucchetti, docente di Impianti nucleari al Politecnico di Torino, esperto di radioprotezione e autore di numerosi lavori scientifici sull’uranio impoverito. Nello studio di Zucchetti si prendono in esame i missili Cruise Tomahawk, prodotti dalla statunitense Raytheon.
Utilizzati nella Guerra del Golfo del 1991, i bombardamenti Nato sulla Bosnia nel 1995, sulla Jugoslavia nel 1999, nel 2001 in Afghanistan e nel 2003 in Iraq. In Libia ne sono stati esplosi finora oltre cento, lanciati da unità navali britanniche e statunitensi nel Mediterraneo. Dettagliato bibliograficamente con la più recente letteratura scientifica, lo studio (qui in allegato PDF o visitabile su FaceBook: http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150129443159574&comments) riprende i modelli di un precedente lavoro di Zucchetti (Bosnia ’95), riprendendone i modelli e calcolando le conseguenze. Il risultato varia a seconda della quantità di Uranio impoverito contenuto nei Cruise. Nonostante la presenza dell’elemento radioattivo all’interno dei missili sia stata esclusa dagli ambienti militari, la pubblicistica in circolazione e le fonti – anche di
origine militare – abilitano l’autore a nutrire dubbi sulla loro veridicità. Gli scenari ipotizzati sono due, a seconda del modello di missile: il carico di uranio impoverito può essere di tre chili (se usato solo come stabilizzatore nelle ali) o di quattrocento (se contenuto nella testata). Postulando mille missili lanciati, se questi fossero del primo tipo (best case scenario), si avrebbero 3mila chili di uranio utilizzati. Se del secondo, 400mila chili (worst case scenario). Il 70 percento del materiale radioattivo brucia e viene disperso nell’ambiente. Nel primo caso, le dosi radioattive stimate sarebbero quindi di 780 Sievert (il Sievert è l’unità di misurazione della radioattività), e il numero di tumori attesi sarebbe molto esiguo, non rilevante dal punto di vista statistico. “Una difficoltà statistica – sottolinea Zucchetti – che nulla ha a che vedere con un’assoluzione di questa pratica, una sua accettazione e meno che mai con una asserzione di scarsa rilevanza o addirittura di innocuità”. Nel secondo caso, invece, con oltre 100mila Sievert, ci si troverebbe di fronte a un numero di insorgenze tumorali pari ad alcune migliaia. Queste, rilevabili facilmente a livello epidemiologico, destano indubbiamente forte preoccupazione. L’esortazione di Zucchetti è rivolta ai governi: facciano sapere con prove certe la presenza o meno, e in che quantità, di uranio nei missili. “E’ importante infine – conclude il ricercatore – raccogliere dati e ricerche nel campo degli effetti delle ‘nuove guerre’ su uomo e ambiente. Bisogna mostrare come le armi moderne, per nulla chirurgiche, producano dei danni inaccettabili; occorre studiare cosa hanno causato a uomini e ambiente che le hanno subite, le guerre ‘umanitarie’ condotte a partire dal 1991″.
Utilizzati nella Guerra del Golfo del 1991, i bombardamenti Nato sulla Bosnia nel 1995, sulla Jugoslavia nel 1999, nel 2001 in Afghanistan e nel 2003 in Iraq. In Libia ne sono stati esplosi finora oltre cento, lanciati da unità navali britanniche e statunitensi nel Mediterraneo. Dettagliato bibliograficamente con la più recente letteratura scientifica, lo studio (qui in allegato PDF o visitabile su FaceBook: http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150129443159574&comments) riprende i modelli di un precedente lavoro di Zucchetti (Bosnia ’95), riprendendone i modelli e calcolando le conseguenze. Il risultato varia a seconda della quantità di Uranio impoverito contenuto nei Cruise. Nonostante la presenza dell’elemento radioattivo all’interno dei missili sia stata esclusa dagli ambienti militari, la pubblicistica in circolazione e le fonti – anche di
origine militare – abilitano l’autore a nutrire dubbi sulla loro veridicità. Gli scenari ipotizzati sono due, a seconda del modello di missile: il carico di uranio impoverito può essere di tre chili (se usato solo come stabilizzatore nelle ali) o di quattrocento (se contenuto nella testata). Postulando mille missili lanciati, se questi fossero del primo tipo (best case scenario), si avrebbero 3mila chili di uranio utilizzati. Se del secondo, 400mila chili (worst case scenario). Il 70 percento del materiale radioattivo brucia e viene disperso nell’ambiente. Nel primo caso, le dosi radioattive stimate sarebbero quindi di 780 Sievert (il Sievert è l’unità di misurazione della radioattività), e il numero di tumori attesi sarebbe molto esiguo, non rilevante dal punto di vista statistico. “Una difficoltà statistica – sottolinea Zucchetti – che nulla ha a che vedere con un’assoluzione di questa pratica, una sua accettazione e meno che mai con una asserzione di scarsa rilevanza o addirittura di innocuità”. Nel secondo caso, invece, con oltre 100mila Sievert, ci si troverebbe di fronte a un numero di insorgenze tumorali pari ad alcune migliaia. Queste, rilevabili facilmente a livello epidemiologico, destano indubbiamente forte preoccupazione. L’esortazione di Zucchetti è rivolta ai governi: facciano sapere con prove certe la presenza o meno, e in che quantità, di uranio nei missili. “E’ importante infine – conclude il ricercatore – raccogliere dati e ricerche nel campo degli effetti delle ‘nuove guerre’ su uomo e ambiente. Bisogna mostrare come le armi moderne, per nulla chirurgiche, producano dei danni inaccettabili; occorre studiare cosa hanno causato a uomini e ambiente che le hanno subite, le guerre ‘umanitarie’ condotte a partire dal 1991″.
Luca Galass
Tratto da: stampalibera.com
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