tratto da Informasalus
Fonte: Valori (Rivista)
L’industria farmaceutica delocalizza i test sui farmaci, per risparmiare
costi e tempo. Sfruttando anche normative assurde, come quella che ha
fatto nascere in India un fenomeno molto simile a una nuova forma di
colonialismo.
«Il dottore ci disse che bastava firmare un documento per ricevere le cure di cui aveva bisogno mio padre, e che in questo modo sarebbe guarito completamente. Ma papà non sapeva leggere molto bene, è andato a scuola solo fino a 9 anni». A parlare è Pradeep Gehlot, ragazzo indiano figlio di Krishna, 61enne malato cronico di asma. Dal 2009 aveva accettato la proposta di uno pneumologo di un ospedale pubblico di seguire un “trattamento gratuito”. In realtà era stato inserito in uno delle decine di migliaia di test alle quali le multinazionali del farmaco sottopongono cittadini indiani. Era diventato una cavia umana. Con la complicità della legge locale.
«Il dottore ci disse che bastava firmare un documento per ricevere le cure di cui aveva bisogno mio padre, e che in questo modo sarebbe guarito completamente. Ma papà non sapeva leggere molto bene, è andato a scuola solo fino a 9 anni». A parlare è Pradeep Gehlot, ragazzo indiano figlio di Krishna, 61enne malato cronico di asma. Dal 2009 aveva accettato la proposta di uno pneumologo di un ospedale pubblico di seguire un “trattamento gratuito”. In realtà era stato inserito in uno delle decine di migliaia di test alle quali le multinazionali del farmaco sottopongono cittadini indiani. Era diventato una cavia umana. Con la complicità della legge locale.
Nello specifico – ha rivelato di recente un’inchiesta del mensile francese Alternatives Economiques
– la “cura” consisteva nella somministrazione di un nuovo
broncodilatatore, l’Olodarerol, sviluppato dal secondo più importante
laboratorio tedesco: Boehringer Ingelheim. Krishna è morto a gennaio,
proprio poco dopo aver saputo che il medicinale che aveva assunto per un
anno non era mai stato approvato in India.
India: il Paese dei test
Storie come questa, nell’immenso Paese dell’Asia meridionale, sono sempre più frequenti. Il Washington Post
ha raccontato ad esempio la vicenda dell’ottantenne Shrad Geete. Due
mesi dopo aver perso la moglie, malata di Alzheimer, scoprì che era
stata inserita in un trattamento di prova: «Il medico ci disse che i
farmaci sarebbero stati concessi gratuitamente, e che si trattava di
medicinali che sarebbero stati lanciati a breve da una compagnia
straniera. Non spiegò che si trattava di un test. Se lo avessi saputo,
pensate che avrei corso il rischio?». L’India è diventata la meta
privilegiata dei colossi globali del farmaco, che preferiscono
“delocalizzare” la morte, dando vita a una nuova forma di vero e proprio
colonialismo, nata nel 2005, quando fu introdotta una riforma che
semplificava fortemente la conduzione di trattamenti di prova nel Paese.
Da
allora e fino al 2010, solamente a Indore, città dove viveva Krishna
Gehlot, sono stati realizzati 3.300 test clinici, per conto di 30
compagnie (tra le quali 22 multinazionali). Un rapporto delle autorità
locali ha spiegato che la metà di tali trattamenti è stata effettuata
senza un assenso formale da parte dei malati. Di questi, 81 persone –
tra cui anche bambini e portatori di handicap – hanno subito gravi
effetti collaterali; 33 sono morti. E nessuno, ad oggi, ha ricevuto un
indennizzo.
Una situazione che, allargata all’India intera, ha
assunto i contorni di un massacro. Tanto da costringere, nell’agosto
scorso, il ministro della Sanità di Nuova Delhi, Ghulam Nabi Azad, a
sciorinarne le agghiaccianti statistiche: solo nei primi sei mesi di
quest’anno sono 211 i decessi provocati dai test. Nel 2011 i casi sono
stati 438; 668 l’anno precedente. Le vittime vengono gelidamente
classificate con la sigla Sae: Serious Adverse Events (letteralmente,
gravi eventi avversi). Come se a ucciderle fosse stato un terremoto o
un’inondazione, e non una scelta drammaticamente lucida, che chiama in
causa aziende, governo indiano e regolatori, locali e internazionali.
Azad
ha spiegato che sono state apportate modifiche alla legge: ora ogni
test è registrato dal Consiglio indiano per la Ricerca Medica e alle
case farmaceutiche è imposto l’obbligo di fornire cure ai malati e
rimborsi alle famiglie dei deceduti.
Guadagni per le multinazionali
Nel
frattempo, però, la quota di cavie umane indiane, sottoposte
attualmente a test, è pari a oltre 200 mila persone. Un mercato da 500
milioni di euro, in crescita del 30% ogni anno. E solo alle famiglie di
22 vittime sono arrivati risarcimenti dalle compagnie di Usa ed Europa
(a cifre in ogni caso indecenti, comprese tra 2 e 20 mila dollari).
Ma
l’India non è l’unica meta del business delle cavie umane. Uno studio
realizzato dal Centro olandese per la Ricerca sulle Multinazionali
(Somo) ha rivelato che il 37% dei pazienti sottoposti a test clinici su
nuovi farmaci (sottomessi all’approvazione delle autorità europee)
risiede in Europa dell’Est, Russia, America Latina e Cina (oltre alla
stessa India). Percentuale che, per le compagnie degli Stati Uniti, sale
al 60%.
Nel sottolineare come sia fondamentale stabilire regole
ferree per i test e come sia complesso il problema, il Somo ha ricordato
i casi dell’Abilify e del Seroquel, sviluppati da Bristol-Myers Squibb e
da AstraZeneca. Si tratta di anti-schizofrenici testati in Sudamerica,
Asia e Africa tra il 2003 e il 2005, attraverso la somministrazione di
alcune sostanze placebo a una parte dei malati. Pratica che, però,
proprio per via dei gravi rischi psicologici che possono insorgere nei
pazienti schizofrenici, è stata vietata in Europa. Così le
multinazionali possono risparmiare tempo, denaro e agire nell’ombra.
Senza “effetti collaterali”: nonostante il modo in cui vennero
effettuati i test, l’Abilify e il Seroquel sono stati approvati e oggi
sono regolarmente in commercio.
UN TAPPETO ROSSO INDIANO PER BIG PHARMA
In
India prima del 2005 i test dovevano essere effettuati rispettando tre
fasi. La prima prevedeva un controllo sulla tolleranza ai medicinali; la
seconda sull’efficacia. La terza, la più onerosa in termini economici,
era costituita da una comparazione tra l’efficacia del farmaco rispetto
ad alcuni placebo su una popolazione compresa tra mille e tremila
pazienti. Una riforma della legge ha consentito però alle multinazionali
di passare direttamente alla fase tre, a patto che le prime due siano
state approvate in un altro Paese.
Una manna per le case
farmaceutiche, dal momento che per trovare in Europa o negli Usa malati
disposti a sottoporsi ai test occorre molto più tempo (e denaro: i
pazienti devono essere rimborsati con migliaia di euro a testa
all’anno). In India basta qualche settimana, e (neppure sempre) qualche
decina di euro.
Articolo interamente tratto dal blog: eliotroporosa
Ciao Zak,buion 2013
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Anche a te carissimo e complimenti per il magnifico post, mi è venuta sete.....
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